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<BODY>
<DIV>
<DIV class=headernot><FONT face=Arial size=2>Cassazione e privacy:
“l’oscuramento” dei dati identificativi nelle sentenze </FONT>
<DIV class=headernotsubt><FONT face=Arial size=2>Cassazione, Ufficio Massimario,
relazione 05.07.2005 (</FONT><A class=headerlink
href="http://www.altalex.com/index.php?idstr=85&idu=11859"><STRONG><FONT
face=Arial color=#afafff size=2>Franco Abruzzo</FONT></STRONG></A><FONT
face=Arial size=2>) </FONT></DIV></DIV>
<DIV align=right><A href="javascript:window.print()"><U><FONT face=Arial
size=2></FONT></U></A> </DIV><BR><BR>
<DIV class=commento><FONT face=Arial size=2>Passo indietro della Cassazione a
tutela del diritto di cronaca garantito dalla Costituzione: è stata distribuita
ai giornalisti , come hanno riferito le agenzie Ansa e Adnkronos del 16 giugno,
una copia integrale di una sentenza per la quale l'imputato, in questo caso un
violentatore, aveva domandato la sbianchettatura del proprio nome. La Suprema
Corte ha, però, deciso, contrariamente a quanto recentemente avvenuto in due
altri casi, di rilasciare la copia integrale del verdetto ai cronisti in quanto
l'artìcolo 52 del Dlgs 196/2003 impone l'oscuramento dei dati identificativi
soltanto nelle riviste giuridiche cartacee e telematiche. </FONT>
<P><FONT face=Arial size=2>In pratica, sulle sentenze che riguardano imputati,
che già nei precedenti gradi di giudizìo hanno chiesto la tutela della normativa
sulla privacy, la Suprema Corte stampiglia un timbro con la dicitura "<I>in caso
di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi''</I>. In
questo modo chi chiede copia di tali sentenze, e chiunque può richiederle perché
sono atti pubblici pronunciati "<I>in nome del popolo italiano''</I>, è
avvertito che deve oscurare le generalità se vuole pubblicarle su una rivista
specializzata. Ma il richiamo della stampigliatura non vale per la cronaca
giudiziaria in senso stretto altrimenti, oltre al diritto all'informazione, non
sarebbe salvaguardato nemmeno il principio della pubblicità dell'esito dei
processi</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La sentenza diffusa il 16 giugno, nella sua
ìntegralità, riguarda la vicenda di un imputato per violenza sessuale, Carmine
L., condannato definitivamente a tre anni di reclusione, al quale la Corte di
Appello di Bologna, lo scorso dicembre, aveva concesso il beneficio della
sospensione della pena. Ad avviso del pm, invece, Carmine L., non poteva
usufruire del beneficio. Ma la Cassazione con la sentenza 22742/05 della Terza
sezione penale ha confermato la decisione della corte felsinea.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>I due precedenti verdetti oscurati con le sentenze
18993 e 19451/2005 su un avvocato truffaldino e un usuraio sono stati gli unici
casi di sbianchettatura del 2005. Un peccato di eccesso di zelo nell'applicare
la legge 196/2003.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Sull'argomento era sceso in campo più volte il
presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, che aveva sottolineato
l'errore nel quale era incorsa la Cassazione.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Pubblichiamo qui di seguito la relazione del 5 luglio
2005 dell'Ufficio Massimario della Corte di Cassazione. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>(<SPAN class=971293709-11072005>FONTE:
</SPAN>Altalex, 11 luglio 2005. Si rimanda all'</FONT><A
href="http://www.altalex.com/index.php?idnot=9742"><FONT face=Arial
color=#0000ff size=2>articolo di Franco Abruzzo del 26/6/2005</FONT></A><FONT
face=Arial size=2>)</FONT></P></DIV><BR><BR>
<P align=center><STRONG><FONT face=Arial size=2>Corte di
Cassazione</FONT></STRONG></P>
<P align=center><STRONG><FONT face=Arial size=2>Ufficio del
Massimario</FONT></STRONG></P>
<P align=center><STRONG><FONT face=Arial size=2>Relazione 5 luglio 2005
</FONT></STRONG></P>
<P><STRONG><FONT face=Arial size=2>Corte di Cassazione e tutela della privacy:
“l’oscuramento” dei dati identificativi nelle sentenze</FONT></STRONG></P>
<P><EM><FONT face=Arial size=2>Sommario: 1.– La questione: pubblicità della
sentenza e tutela della privacy.2.– Sguardo retrospettivo: la disciplina
anteriore al Codice di protezione dei dati personali. 3.– In generale, i
trattamenti per ragioni di giustizia nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. 4.–
L’anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati nel Codice sulla
privacy. 5.– Modalità e ambito di protezione dei dati sensibili. In particolare,
i rapporti con la libertà di stampa.</FONT></EM></P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>1. – La questione: pubblicità della sentenza e tutela
della privacy. La presente relazione[1] affronta la questione dei limiti e delle
modalità di anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati nelle
sentenze e negli altri provvedimenti giurisdizionali di ogni ordine e grado, ai
sensi dell’art. 52 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di
protezione dei dati personali; d’ora in poi, Codice).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il tema – da collocare, per ragioni sistematiche e
ricostruttive, nel più ampio contesto del trattamento dei dati personali per
ragioni di giustizia – investe un aspetto centrale della disciplina del Codice,
nel quale sono coinvolti aspetti che si pongono in rapporto dialettico: la
pubblicità delle sentenze e il rispetto della sfera privata di chi vi ha preso
parte.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Da una parte vi sono l’interesse e l’esigenza della
pubblicità, intesa come dimensione coessenziale del processo. La pubblicità è
momento ineliminabile del fair trial, rappresentando sia un “elemento
organizzativo delle attività processuali” a garanzia degli interessi
fondamentali degli interessati, sia un “elemento di controllo esterno
sull’operato delle corti a tutela di interessi di carattere meta-individuale,
come la trasparenza e l’imparzialità delle procedure giudiziarie”[2].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Accanto all’interesse dei terzi a conoscere e
controllare le modalità di amministrazione della giustizia vi è il diritto alla
privacy, posto a presidio della intimità, della riservatezza, dell’identità e
della dignità della persona. Tuttavia questo diritto – che pure non si consuma
una volta che, con il processo, il soggetto ha fatto ingresso nella sfera
pubblica – non si traduce né si risolve in una difesa ad oltranza della sfera
privata, tale da renderla segreta ed inaccessibile a terzi (right to be let
alone); piuttosto, sollecita un’esigenza di bilanciamento con le esigenze di
massima trasparenza che contraddistinguono il fenomeno processuale.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>2. – Sguardo retrospettivo: la disciplina anteriore
al Codice di protezione dei dati personali. La legge 31 dicembre 1996 n. 675
(Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali) non conteneva una disciplina ad hoc sul trattamento dei dati
personali[3] in ambito giudiziario. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Infatti l’art. 4, relativo ai “particolari
trattamenti in ambito pubblico”, stabiliva soltanto, con riferimento ai
trattamenti del servizio del casellario giudiziale, a quelli di cui all’art.
371-bis, comma 3, cod. proc. pen. o attuati, “per ragioni di giustizia”,
nell’ambito di uffici giudiziari, del Consiglio superiore della magistratura e
del Ministero della giustizia, una limitata applicabilità delle disposizioni
della stessa legge. Tra queste, si ponevano le norme sulla notificazione (art.
7), sulla modalità di raccolta e sui requisiti dei dati personali (art. 9), in
tema di sicurezza (art. 15), su alcuni limiti di utilizzabilità dei dati (art.
17), in tema di responsabilità per danni (art. 18), sui compiti e su alcune
modalità di accertamento del Garante (artt. 31, 32, commi 6 e 7), sulle sanzioni
e sui reati (art. 34). </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La legge non conteneva tuttavia una definizione
dell’espressione “per ragioni di giustizia”, sicché si era posta in termini
controversi la questione se la suddetta disciplina riguardasse anche i
trattamenti effettuati dalla magistratura nell’esercizio della funzione
giudiziaria.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In senso affermativo si è più volte espresso il
Garante. Pur dando atto che il trattamento di dati per finalità investigative e
giudiziarie non era disciplinato dalla legge con sufficiente chiarezza, il
Garante aveva ritenuto applicabili all’attività della polizia giudiziaria,
svolta sotto la direzione del pubblico ministero, i principi previsti per i
trattamenti per ragioni di giustizia ed in particolare quelli, di cui all’art. 9
della legge n. 675 del 1996, di “pertinenza” e di “non eccedenza” delle
informazioni trattate rispetto alle finalità lecitamente perseguite, con la
conseguenza, tra l’altro, che “il materiale informativo da acquisire nel
procedimento penale dovesse essere selezionato in base alla necessità di
assumere dati, informazioni e notizie necessari per la prevenzione,
l’accertamento e la repressione dei reati”. Ciò sul rilievo che la citata legge,
non pregiudicando tali finalità, rendeva “necessario operare in un quadro di
maggiore attenzione per i diritti della personalità tutelati dalla legge
stessa”, ed imponeva di “non arrecare pregiudizi ingiustificati alle persone,
specie qualora si tratti di terzi estranei alle vicende giudiziarie”. In
particolare, il deposito degli atti di indagine, ad avviso del Garante, poteva
rappresentare un fattore in grado di esporre a gravi pregiudizi i terzi estranei
al processo, considerata anche la facilità con cui atti di questa natura
potevano divenire successivamente oggetto di facile diffusione[4]. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Lo stesso Garante, nel chiarire che tra le
disposizioni non abrogate dalla legge n. 675 del 1996 rientravano anche le norme
del codice di procedura penale e le altre norme processuali vigenti relative
alla conoscibilità del calendario dei processi, della pubblicità delle udienze e
degli esiti dei giudizi, nonché quelle concernenti l’accesso ai registri
giudiziari e l’estrazione di copia di atti processuali, precisava che le
attività degli uffici volte al rilascio di copie di atti o alla consultazione
dei registri relativi ai procedimenti giudiziari si ponevano tra le attività
svolte “per ragioni di giustizia” e ribadiva l’obbligo anche per il trattamento
di dati da parte degli uffici giudiziari dell’osservanza del principio di
“pertinenza”[5].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Sempre con riferimento ai trattamenti di cui al
citato art. 4, il Garante ha preso in considerazione le censure mosse da un
ricorrente in ordine alla comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria di
dati personali, acquisiti attraverso intercettazioni telefoniche (nella
fattispecie, relativa all’autorizzazione concessa dal pubblico ministero alla
polizia di sicurezza per l’uso della suddetta documentazione a scopi
disciplinari, il Garante ha ritenuto che l’art. 270, comma 1, cod. proc. pen.,
prevedendo una limitazione all’uso dei risultati delle intercettazioni
telefoniche in altri procedimenti penali disciplinati dal codice di rito, non
precluderebbe in linea generale l’utilizzazione dei medesimi risultati – se
lecitamente acquisiti in base al codice – in procedimenti diversi da quello
penale, come quello di tipo disciplinare)[6].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il Garante ha inoltre ritenuto che rientrasse
nell’ambito dei trattamenti per ragioni di giustizia la divulgazione di un dato
riguardante la salute di una persona avvenuta a seguito del deposito agli atti
in un procedimento giudiziario di un verbale di sommarie informazioni assunte ex
art. 351 cod. proc. pen. nell’ambito di indagini di polizia giudiziaria (nella
specie il ricorrente aveva chiesto, tra l’altro, l’eliminazione dall’incarto
processuale dell’intero atto contenente informazioni personali relative al
proprio stato di salute, ovvero una rettifica del medesimo atto mediante
l’eliminazione dell’informazione in questione)[7].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Muovendo da una problematica sorta con il riferimento
ad un processo civile per il risarcimento dei danni subiti da persone affette da
HIV contratta a seguito della somministrazione di emoderivati infetti, il
Garante, oltre a richiamare i principi di correttezza, pertinenza e sicurezza
nel trattamento dei dati, aveva segnalato al Governo e al Parlamento
l’opportunità di introdurre alcune norme di raccordo in materia, per meglio
contemperare le esigenze processuali di accertamento pieno e trasparente dei
fatti e delle connesse responsabilità con l’altrettanto importante esigenza di
garantire, con ogni mezzo possibile, “la riservatezza dei soggetti coinvolti in
alcune vicende giudiziarie, nelle quali siano esposti ad ulteriore rischio
aspetti particolarmente delicati della persona”[8]. A tal fine, il Garante aveva
richiamato quanto previsto dal legislatore con l’art. 13, comma 5, della legge
23 febbraio 1999, n. 44, con il quale era stato consentito al pubblico ministero
di adottare “le necessarie cautele per assicurare la riservatezza dell’identità”
delle vittime degli atti estorsivi o di usura che abbiano denunciato i fatti di
reato per cui si procede, in ragione delle comprensibili ripercussioni che la
diffusione delle generalità potrebbe avere sulla loro incolumità, a causa di
prevedibili azioni di ritorsione.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Per quanto riguarda la posizione assunta dalla
giurisprudenza di legittimità, è da segnalare Cass. pen., Sez. II, 23 marzo-30
aprile 1999, n. 1480, ric. Ferrari, rv. 213307, secondo cui i limiti derivanti
dalla legge n. 675 del 1996 non possono porsi per l’autorità giudiziaria che
indaga in ordine a fatti penalmente rilevanti, alla luce sia dei principi
generali del diritto processuale penale, sia dell’art. 27, comma 1, della legge
ora citata, che stabilisce che il trattamento di dati personali da parte di
soggetti pubblici è consentito per lo svolgimento delle funzioni istituzionali,
ed infine del contenuto del comma 4 dell’art. 22. Quest’ultima norma, nel
disporre che i dati sensibili possono essere utilizzati con l’autorizzazione del
Garante, ma senza il consenso dell’interessato, “qualora il trattamento sia
necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni di cui all’art. 38
disp. att. cod. proc. pen.”, dimostrerebbe in maniera inequivocabile, ad avviso
della S.C., che per il pubblico ministero non sono posti limiti di sorta in
materia. In tema di riconoscimento della paternità, la Corte ha affermato
inoltre che non è configurabile nel sistema “alcun potere di controllo o di
indirizzo dell’Autorità garante sulle modalità di esercizio della giurisdizione”
(Cass. civ., Sez. I., 7 novembre 2001, n. 13766, rv. 550059: nella specie, il
ricorrente si era rifiutato di sottoporsi alla prova del DNA per ragioni di
riservatezza).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La dottrina aveva prevalentemente seguito
quest’ultimo indirizzo. In particolare, era stato sostenuto che la generica
espressione “ragioni di giustizia”, oltre ad essere associata dalla norma a
strutture amministrative (quali il Ministero o il CSM), doveva essere
ricollegata, con riferimento al termine “uffici giudiziari” (e quindi non a
“magistrati, giudici, autorità giudiziaria”), “a quelle attività amministrative
o burocratiche, che, per essere strettamente connesse alla funzione giudiziaria,
presentavano un nucleo caratteristico e differenziatore rispetto ai trattamenti
propriamente amministrativi, soggetti alla disciplina generale di cui alla legge
n. 675 del 1996”[9]. Doveva trattarsi in altri termini di tutte le attività
amministrative effettuate dall’amministrazione della giustizia per finalità
strettamente collegate con la funzione giudiziaria, mediante l’utilizzazione di
dati personali particolari (acquisiti in occasioni di processi), con esclusione
delle attività relative a personale, mezzi e strutture dell’Amministrazione
della giustizia (le quali ricadevano nel più generale ambito della disciplina
dei trattamenti svolti dalla pubblica amministrazione)[10]. A tale soluzione,
con riferimento allo specifico tema del controllo del Garante sull’attività
giurisdizionale, la dottrina era anche pervenuta sulla base di ragioni di
carattere costituzionale e di razionalità del sistema
processuale[11].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Nelle incertezze sull’ambito di applicazione
dell’art. 4 cit., si era posta la questione della collocazione tra i trattamenti
per ragioni di giustizia di quello relativo al CED della Corte di cassazione e
degli altri archivi di informatica giuridica, non contemplati dalla legge n. 675
del 1996, con conseguenti ricadute sulla disciplina ad essi
applicabile.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La normativa invero prevedeva in linea generale la
legittimità del trattamento di dati personali idonei a rivelare i provvedimenti
di cui all’articolo 686 commi 1, lettere a) e d), 2 e 3 cod. proc. pen., attuato
al di fuori dell’ambito delineato dall’art. 4 cit., soltanto se autorizzato da
espressa disposizione di legge o provvedimento del Garante che specifichino le
rilevanti finalità di interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati
trattati e le precise operazioni autorizzate (art. 24). La norma consentiva il
trattamento di tali dati, se autorizzato, anche da parte di soggetti
privati.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Stante il limitato campo di applicazione di tale
norma, era stata poi inserita, con la novella di cui all’art. 9 del d.lg. 28
dicembre 2001, n. 467, la disposizione (art. 24-bis) con la quale si specificava
che il trattamento di dati suscettibile di arrecare rischi specifici per i
diritti e le libertà fondamentali, nonché per la dignità dell’interessato, in
relazione alla natura dei dati o alle modalità del trattamento o agli effetti
derivanti, era ammesso “nel rispetto di misure ed accorgimenti a garanzia
dell’interessato”, ove prescritti dal Garante sulla base dei principi sanciti
dalla legge nell’ambito di una verifica preliminare all’inizio del trattamento,
effettuata anche in relazione a determinate categorie di titolari o di
trattamenti, sulla base di un eventuale interpello del titolare.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Tra le autorizzazioni di tipo generale rilasciate dal
Garante ai sensi dell’art. 24 si poneva quella per la documentazione giuridica
(n. 7 del 2000), diretta a favorire la prosecuzione dell’attività di
documentazione, studio e ricerca in campo giuridico, in particolare per la
diffusione di dati relativi a precedenti giurisprudenziali, in ragione anche
dell’affinità di tali attività con quelle di manifestazione del pensiero già
disciplinate dagli articoli 12, 20 e 25 della legge n. 675 del 1996. La suddetta
autorizzazione richiamava peraltro il rispetto ad un uso dei dati trattati in
linea con le finalità perseguite (i dati possono essere comunicati e, ove
previsto dalla legge, diffusi, a soggetti pubblici o privati, nei limiti
strettamente necessari per le finalità perseguite).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In ordine al CED della Cassazione, il Garante aveva
sottolineato l’esigenza di assicurare un uso legittimo dei dati personali
consultati nelle banche dati da parte degli utenti, in particolare per la
consultazione di provvedimenti giudiziari che riportano generalità delle parti e
dati riferiti a particolari condizioni o status, anche di natura sensibile. I
dati consultabili attraverso l’accesso al CED, aveva ribadito il Garante,
potevano essere utilizzati dagli utenti per scopi di documentazione e ricerca in
ambito giudiziario o professionale, di studio o per eventuali statistiche, ma
non anche, in mancanza di una specifica previsione e di una previa informativa
agli interessati, per altre finalità indebite, quali, ad esempio, il
monitoraggio della giurisprudenza di alcuni uffici giudiziari diretta alla
“profilazione” del comportamento del singolo imputato o magistrato o la
valutazione a fini disciplinari della produttività dell’organo decidente[12].
</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>3. – In generale, i trattamenti per ragioni di
giustizia nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Con riferimento ai trattamenti in
ambito pubblico esclusi dall’applicazione della legge n. 675 del 1996 (e quindi
anche per quelli per ragioni di giustizia), il legislatore aveva delegato il
Governo, con la legge 31 dicembre 1996, n. 676, al “pieno recepimento” dei
principi desumibili dalla legislazione in materia di tutela delle persone e di
altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. La nuova normativa
doveva dettare anche una disciplina per favorire lo sviluppo dell’informatica
giuridica.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Stante la mancata attuazione della suddetta delega,
veniva emesso un nuovo provvedimento di delega con la legge 6 ottobre 1998, n.
344, anch’esso inevaso dal Governo. Con la legge 24 marzo 2001, n. 127, il
legislatore concedeva un nuovo termine per l’attuazione delle deleghe oramai
scadute, conferendo nel contempo al Governo una nuova ed autonoma delega per
l’emanazione di un testo unico delle disposizioni in materia di tutela delle
persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali e delle
disposizioni connesse, coordinandovi le norme vigenti ed apportando alle
medesime le integrazioni e modificazioni necessarie al predetto coordinamento o
per assicurarne la migliore attuazione.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Mentre le precedenti deleghe venivano inutilmente a
scadenza, solo la seconda veniva prorogata dal legislatore (fino al 30 giugno
2003) con la legge 3 febbraio 2003, n. 14, allo specifico fine di “consentire il
previo recepimento della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali’. Tale
direttiva peraltro aveva la dichiarata finalità di armonizzare le disposizioni
degli Stati membri in tema di privacy con specifico riguardo al trattamento dei
dati personali nel settore delle comunicazioni elettroniche e per assicurare la
libera circolazione di tali dati e delle apparecchiature e dei servizi di
comunicazione elettronica all’interno della Comunità[13]. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Sulla base di tale quadro normativo, veniva quindi
varato il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Per quanto attiene al trattamento di dati personali
per “ragioni di giustizia” (artt. 46-49), il Codice accoglie sostanzialmente la
soluzione interpretativa fatta propria dal Garante, identificando tali
trattamenti in quelli direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di
affari e di controversie, o che, in materia di trattamento giuridico ed
economico del personale di magistratura, hanno una diretta incidenza sulla
funzione giurisdizionale, nonché nelle attività ispettive su uffici giudiziari
(art. 47, comma 2). Restano pertanto esclusi, come chiarito dalla Relazione di
accompagnamento al Codice, i trattamenti relativi all’ordinaria attività
amministrativo-gestionale di personale e mezzi, rispetto ai quali trova
applicazione la ordinaria disciplina dei trattamenti in ambito pubblico.
</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Capovolgendo l’impostazione della previgente
normativa, viene stabilito in linea di principio l’applicabilità ai trattamenti
per ragioni di giustizia, salvo limitate eccezioni, dell’intero corpo delle
norme del testo unico (art. 47, comma 1).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Tra le disposizioni non applicabili ai trattamenti
suddetti si pongono in particolare quelle dettate dagli artt. 9 (modalità di
esercizio dei diritti dell’interessato), 10 (riscontro dell’interessato), 12
(codici di deontologia e buona condotta), 13 (informativa), 16 (cessazione del
trattamento), 18-22 (regole specifiche per i soggetti pubblici), 37 e 38 commi
da 1 a 5 (notificazione del trattamento), 39-45 (obbligo di comunicazione e
regole per il trasferimento dei dati all’estero), 145-151 (norme sulla tutela
dinanzi al Garante). Secondo la Relazione di accompagnamento al Codice, si
tratta di disposizioni “non agevolmente compatibili con un efficace
perseguimento dell’interesse pubblico perseguito”[14].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Al riguardo, va segnalato il recente provvedimento
del 7 febbraio 2005[15], con il quale il Garante ha escluso l’ammissibilità di
un ricorso, avanzato ex art. 145 del Codice da una persona sottoposta a
procedura esecutiva immobiliare dinnanzi ad un ufficio giudiziario, diretto ad
ottenere il blocco o la trasformazione in forma anonima dei dati personali che
la riguardavano, contenuti in alcuni documenti diffusi sul sito Internet del
medesimo ufficio. Il Garante, nel rilevare che nei confronti di tale tipologia
di trattamenti, ai sensi dell’art. 8, comma 2, lettera g), del Codice, i diritti
di cui al citato art. 7 non potevano essere esercitati con richiesta rivolta
direttamente al titolare o al responsabile o con ricorso ai sensi dell’art. 145,
ha deciso di avviare gli accertamenti nei modi di cui all’art. 160 del Codice
sul trattamento dei dati personali effettuati dall’ufficio giudiziario
interessato. Per quanto riguarda, poi, le informazioni contenute nei
provvedimenti dell’autorità giudiziaria che dispongono il giudizio penale, il
Garante ha ribadito che, fermo restando il rispetto dei principi di pertinenza e
di non eccedenza, la normativa in materia di protezione dei dati non pregiudica
l’esercizio dell’attività giudiziaria, in particolar modo quando il codice di
rito preveda specificamente l’inserimento in tali provvedimenti di precise
informazioni per determinate finalità processuali[16].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Circa gli esiti dei controlli effettuati dal Garante,
la norma da ultimo citata, mentre significativamente da un lato prevede che la
validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel
procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a
disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti
disposizioni processuali nella materia civile e penale (art. 160, ult.
comma)[17], dall’altro stabilisce che, nel caso in cui il trattamento risulti
non conforme alle disposizioni di legge o di regolamento, il Garante indichi
all’ufficio giudiziario “le necessarie modificazioni ed integrazioni”,
verificandone l’attuazione (art. 160, comma 2). </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Nulla si prevede invece in ordine alle conseguenze
nel caso in cui quest’ultimo non si adegui alle prescrizioni del Garante. In
ogni caso, ove accertata dal Garante la violazione di legge o di regolamento, le
parti possono agire con autonoma azione di responsabilità civile di danno anche
non patrimoniale.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Particolari regole sono contenute nel Codice in
ordine a talune attività giudiziarie che avevano creato maggiori problemi in
tema di privacy, quali le notificazioni e le vendite giudiziarie.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In ordine alle prime, il Codice, intervenendo sulle
relative disposizioni processuali (art. 174), adotta il principio secondo il
quale, qualora la notificazione (sia in ambito civile che penale, nonché
riguardante sanzioni amministrative e di atti e documenti provenienti da organi
delle pubbliche amministrazioni, se effettuate a soggetti diversi dagli
interessati) non possa essere eseguita nelle mani del destinatario, la copia
dell’atto deve essere consegnata in busta sigillata e su questa non devono
essere apposte indicazioni da cui possa desumersi il contenuto dell’atto stesso.
</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>È stata modificata anche la disciplina sulla
pubblicazione degli avvisi concernenti le vendite giudiziarie (art. 174),
prevedendo che negli avvisi relativi all’esecuzione immobiliare debba essere
omessa l’indicazione del debitore e che nella vendita senza incanto i dati
relativi al debitore possano essere forniti dalla cancelleria del tribunale a
chiunque vi abbia interesse.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Per quel che attiene al regime di riservatezza degli
atti trattati in ambito giudiziario, va rammentata la regola generale secondo
cui non sussistono le garanzie della privacy per quei “dati provenienti da
pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque, fermi
restando i limiti e le modalità che le leggi, i regolamenti o la normativa
comunitaria stabiliscono per la conoscibilità e pubblicità dei dati” (artt. 24,
comma 1, lettera c; 38, comma 6; 43, comma 1, lettera f). Peraltro, nella
vigenza della precedente normativa, il Garante aveva affermato che il calendario
dei processi, le udienze e le sentenze sono pubblici e conoscibili da chiunque
vi abbia interesse, secondo le modalità regolate dal codice di rito e dalle
altre norme processuali[18]. Così aveva ritenuto lecita la diffusione della
notizia della richiesta di rinvio a giudizio, anche quando l’imputato sia
indicato nominativamente, in quanto la diffusione di tale tipo di notizia non
risultava vietata da norme specifiche[19].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Maggiori restrizioni sono previste dal Codice nel
caso del trattamento, fuori dall’ambito sopra descritto, dei c.d. “dati
giudiziari”, definiti dall’art. 4 come “i dati personali idonei a rivelare
provvedimenti di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a o) e da r) a u),
del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, in materia di casellario giudiziale, di
anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi
carichi pendenti, o la qualità di imputato o di indagato ai sensi degli articoli
60 e 61 del codice di procedura penale”. La definizione è stata aggiornata a
seguito all’adozione del testo unico in materia di casellario giudiziale ed
estesa, rispetto alla previgente normativa, alla qualità di imputato o di
indagato, senza prendere peraltro in considerazione le violazioni amministrative
(secondo la Relazione di accompagnamento, in attuazione di quanto previsto dalla
direttiva 95/46/CE, che all’art. 8, comma 5, si riferisce soltanto ai
trattamenti riguardanti “infrazioni”).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il Codice considera legittimo il trattamento di tali
dati da parte di soggetti pubblici o privati “solo se autorizzato da espressa
disposizione di legge” o da “provvedimento del Garante che specifichino le
finalità di rilevante interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati
trattati e di operazioni eseguibili” (artt. 21 e 27). </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Nel caso di soggetti pubblici, è rafforzato il
principio di proporzionalità nel trattamento di queste informazioni, ritenendosi
legittimo il trattamento dei soli dati giudiziari “indispensabili per svolgere
attività istituzionali che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante
il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa” (art. 22)
. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Tra le autorizzazioni di ordine generale rilasciate
dal Garante per il trattamento di dati giudiziari da parte di soggetti pubblici
o privati vi è quella relativa alla “documentazione giuridica”, secondo cui è
autorizzato “il trattamento, ivi compresa la diffusione, di dati per finalità di
documentazione, di studio e di ricerca in campo giuridico, in particolare per
quanto riguarda la raccolta e la diffusione di dati relativi a pronunce
giurisprudenziali”, se pur con la prescrizione di tipo generale che possono
essere trattati “i soli dati essenziali per le finalità per le quali è ammesso
il trattamento e che non possano essere adempiute, caso per caso, mediante il
trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa”[20]. A
differenza degli altri trattamenti dei dati giudiziari, i dati da utilizzare per
la documentazione giuridica, come rimarca l’autorizzazione suddetta, non devono
essere forniti dagli interessati, nel rispetto della disciplina prevista dal
d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313. In ogni caso, l’autorizzazione richiama gli
artt. 51 e 52 del Codice, che dettano una particolare disciplina per la
diffusione dei dati giudiziari in via informatica.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>4. – L’anonimizzazione dei dati identificativi degli
interessati nel Codice sulla privacy. E’ in questo ambito che il Codice affronta
il tema della anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati, nel
contesto di una specifica disciplina dettata con riguardo alla informatica
giuridica (artt. 51 e 52).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il cardine di questa disciplina è rappresentato da un
principio che coniuga la tutela della riservatezza con la promozione e
l’apertura: le norme degli artt. 51 e 52 non pongono, nel loro complesso,
divieti e restrizioni, ma tendono (è la stessa Relazione che accompagna il
Codice a riconoscerlo) “ad agevolare lo sviluppo dell’informatica giuridica nel
rispetto dei principi in materia di protezione dei dati personali”. La finalità
ispiratrice, in altri termini, è quella di “favorire la conoscibilità dei dati
identificativi … delle decisioni giudiziarie adottate mediante reti di
comunicazioni elettronica anche attraverso il sito Internet dell’autorità
giudiziaria”.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>A tale riguardo il legislatore delegato si è attenuto
al criterio direttivo specificamente previsto dalla legge di delegazione: l’art.
1, comma 1, lettera l), della legge n. 676 del 1996, come si è visto, prevedeva
infatti che il Governo, nell’emanare la nuova disciplina in materia di tutela
delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali,
dovesse dettare norme dirette a “favorire lo sviluppo dell’informatica
giuridica”. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Con riguardo alla diffusione delle sentenze e delle
altre decisioni dell’autorità giudiziaria, esse – a termini dell’art. 51, comma
2, del Codice – “sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e
il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le
cautele previste” nel successivo art. 52.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La possibilità di accedere alle sentenze e alle altre
decisioni dell’autorità giudiziaria “di ogni ordine e grado” non è circoscritta
ai soggetti portatori di uno specifico interesse, ma – in linea con il carattere
pubblico delle sentenze e degli altri provvedimenti con cui si conclude il grado
di giudizio – a chiunque. Infatti, a differenza di quanto avviene con riguardo
ai dati identificativi delle questioni pendenti – i quali, ai sensi del comma 1
dello stesso art. 51, “sono resi accessibili a chi vi abbia interesse[21] anche
mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale
della medesima autorità nella rete Internet” –, per le sentenze e per le altre
decisioni dell’autorità giudiziaria il d.lgs. n. 196 del 2003 non contiene
alcuna disposizione limitativa. Inoltre le sentenze e gli altri provvedimenti
giurisdizionali, consultabili nella rete attraverso l’accesso al sito
istituzionale dell’autorità giudiziaria, possono essere utilizzati dagli utenti
per le finalità più varie: per scopi di documentazione e ricerca in ambito
giudiziario o professionale, di studio o per eventuali statistiche. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Le cautele da osservarsi nella diffusione delle
decisioni sono tipiche e ad un tempo speciali. Infatti:</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- non riguardano tutti i dati (ad esempio, la
particolare vicenda attinente allo stato di salute o alla vita sessuale di un
certo soggetto o alla discriminazione religiosa o razziale subita da tal altro
soggetto), ma soltanto i dati identificativi dell’interessato, per tali
intendendosi – ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo – i dati personali che permettono l’identificazione
dell’interessato; </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- non concernono tutte le decisioni, ma soltanto
quelle nelle quali per legge o secondo l’apprezzamento del giudice si pone
un’esigenza di “oscuramento” dei dati identificativi dell’interessato.
</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In linea generale, pertanto, le sentenze e gli altri
provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso il sito
istituzionale nella rete Internet, nel loro testo integrale, completo – oltre
che dei dati riferiti a particolari condizioni o status, anche di natura
sensibile – delle generalità delle parti e dei soggetti coinvolti nella vicenda
giudiziaria. Questa conclusione è agevolmente ricavabile dal comma 7 dell’art.
52 del Codice, ai cui sensi “Fuori dei casi indicati nel presente articolo [il
quale si riferisce ai dati identificativi degli interessati] è ammessa la
diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri
provvedimenti giurisdizionali”.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>L’art. 52 del Codice mantiene ferme le disposizioni
concernenti la redazione e il contenuto delle sentenze, sicché la pronuncia, nel
momento in cui viene redatta e depositata in cancelleria, deve contenere
l’indicazione del nome delle parti, nonché dei loro difensori e del giudice
(cfr. art. 133 cod. proc. civ. e artt. 536 e 545 cod. proc. pen.). Il Codice in
materia di protezione dei dati personali (art. 52, comma 1) fa infatti
espressamente salvo quanto previsto dalle disposizioni dei codici di procedura
concernenti la redazione, il contenuto e – aggiungeremmo noi – la pubblicazione
di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria
di ogni ordine e grado; esso interviene soltanto a disciplinare il momento della
diffusione della sentenza o del provvedimento giurisdizionale per finalità di
informatica giuridica. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>A differenza dell’esperienza nordamericana (nella
quale, in materie particolarmente sensibili, è data la possibilità di agire
dietro pseudonimo), il nostro sistema, così come quello degli altri paesi
europei, non conosce, neppure con riguardo al processo civile, la possibilità
della omissione di dati anagrafici dell’attore (o del convenuto) già al momento
dell’introduzione della domanda[22].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La possibilità di rendere in forma anonima i dati
personali contenuti in una sentenza si ha soltanto al momento della sua
riproduzione in qualsiasi forma per finalità di informazione giuridica su
riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>L’art. 52 definisce i casi nei quali è garantito il
diritto all’anonimato delle parti in giudizio o dei soggetti
interessati.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il sistema si articola su due livelli.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>A) Il primo livello affida all’intervento del giudice
l’anonimizzazione delle generalità e di altri dati identificativi. Sussistendo
motivi legittimi che andranno esplicitati, l’interessato (non solo, quindi, la
parte del giudizio) può chiedere, mediante istanza scritta depositata nella
cancelleria o segreteria dell’autorità procedente prima che sia definito il
relativo grado di giudizio[23], che sull’originale della sentenza o del
provvedimento sia apposta, a cura della cancelleria o segreteria, un’annotazione
volta a precludere, appunto in caso di riproduzione della sentenza o
provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su
riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del
medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Su tale istanza provvede in calce con decreto, senza
ulteriori formalità, l’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il
provvedimento. La medesima autorità può disporre d’ufficio l’anonimizzazione a
tutela dei diritti o della dignità degli interessati.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il diritto dell’interessato a chiedere che eventuali
riproduzioni del provvedimento avvengano con l’esclusione delle sue generalità
deve essere funzionalmente agganciato alla presenza di motivi
legittimi.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>E’ stata affacciata, in dottrina, la tesi secondo cui
il giudice non potrebbe sindacare “un atto di disposizione di un proprio
diritto, autonomo”, quale quello alla privacy, ma debba “provvedere, a semplice
richiesta dell’interessato, all’annotazione dell’anonimato”[24].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La tesi non è condivisibile, perché in tal modo “si
finirebbe per legittimare una sorta di signoria assoluta ed esclusiva sui dati
personali che collide con l’intero spirito della disciplina della privacy, prima
ancora che con la lettera della legge e con le esigenze di giustizia ed
efficienza sottese alla sua implementazione pratica. In particolare, eliminando
il sindacato sui motivi legittimi si vanificherebbe quella difficile ricerca di
un equilibrio tra il rispetto della privacy e le esigenze fondamentali di
controllo sulla trasparenza e l’imparzialità dell’attività
giudiziaria”[25].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>L’autorità giudiziaria dovrà pertanto valutare in
concreto i motivi legittimi addotti dall’interessato, bilanciando il principio
della generale conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto
integrale delle sentenze, quale strumento di democrazia e di informazione
giuridica, con la tutela del singolo[26].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Ne consegue che l’anonimizzazione – da intendere come
soluzione “possibile ma non sempre necessaria e soprattutto non automatica”[27]
– non sembra che possa essere disposta dal giudice sulla base della semplice
affermazione dell’istante: occorre che ci si trovi in presenza di circostanze
particolari e di motivi debitamente giustificati, che vanno oltre il mero
interesse al riserbo. In definitiva – e posto che l’interessato non potrà
limitarsi, nella sua istanza, ad un generico richiamo alla locuzione legislativa
– l’omissione dell’indicazione delle generalità e dei dati identificativi potrà
essere disposta ogniqualvolta dalla diffusione completa della sentenza o di
altro provvedimento giurisdizionale derivi un pericolo di pregiudizio per i
diritti e le libertà fondamentali o per la dignità dell’interessato.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In questo senso può trarsi spunto dall’art. 47 delle
Rules della Corte europea dei diritti dell’uomo: “Applicants who do not wish
their identity to be disclosed to the public shall so indicate and shall submit
a statement of the reasons justifying such a departure from the normal rule of
public access to information in proceedings before the Court. The President of
the Chamber may authorise anonymity in exceptional and duly justified
case”[28].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Ulteriori argomenti esegetici possono essere desunti
dagli approdi del dibattito formatosi in merito al generale diritto riconosciuto
all’interessato di ottenere la trasformazione in forma anonima dei propri dati
personali e di opporsi al loro trattamento, previsto sin dalla disciplina
previgente tra i diritti della persona (e ora disciplinato dall’art. 7, comma 4,
del Codice, applicabile, come si è visto, anche per i trattamenti per “ragioni
di giustizia”).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Mentre il diritto di ottenere la trasformazione in
forma anonima dei propri dati personali è esercitabile solo in presenza di dati
trattati “in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la
conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o
successivamente trattati”, la facoltà di opporsi in tutto o in parte al
trattamento viene fondata sull’esistenza di “motivi legittimi” al trattamento
dei dati personali, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta[29]. Al
riguardo, la direttiva europea 95/46/CE, mentre da un lato ha chiarito, al
Considerando 45, che l’opposizione può riguardare anche il trattamento lecito
dei dati personali (ad es. per ragioni di interesse pubblico o nell’esercizio di
una funzione pubblica), dall’altro, all’art. 14, ha fondato tale diritto su
“motivi preminenti e legittimi, derivanti dalla sua situazione particolare”. Ed
è alla luce di questa precisazione che la dottrina ha definito l’ambito di
esercizio del diritto di opposizione nella normativa interna, orientando la
protezione dei dati “verso una personalizzazione della tutela che offre
l’opportunità di modellare case by case un impianto normativo dettagliato, ma
composto pur sempre di principi generali”[30]. La stessa normativa comunitaria
invero pone tra i suoi principi-cardine quello della necessità di un
bilanciamento in concreto dei contrapposti interessi in gioco (art. 7, lettera
f, della citata direttiva), principio espresso nella legislazione interna prima
nell’art. 20, lettera h-bis) della legge n. 675 del 1996 a seguito della novella
introdotta dall’art. 7, comma 2, del d.lgs. 28 dicembre 2001, n. 467[31], ed ora
nell’art. 24, lettera g), del Codice[32]. Si tratterebbe quindi di contemperare
caso per caso il diritto di informare ed essere informati con i diritti e le
libertà fondamentali. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il richiamo ad una valutazione in concreto degli
opposti interessi è stata tra l’altro fatta propria dalla giurisprudenza
amministrativa formatasi in tema di accesso ai dati sensibili: il Consiglio di
Stato ha sostenuto che tale valutazione deve essere fatta in concreto, “in modo
da evitare il rischio di soluzioni precostituite poggianti su una astratta scala
gerarchica dei diritti in contesa” (Cons. Stato, Sez. VI, 30 marzo 2001, n. 1882
e 9 maggio 2002, n. 2542; Sez. V, 31 dicembre 2003, n. 9276). In merito, il
Garante ha ribadito la necessità che in ogni caso l’interessato specifichi in
maniera chiara e comprovi sufficientemente le motivazioni legittime
dell’opposizione, non potendosi accogliere una richiesta
generica[33].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In questa direzione sembra muoversi la prima
applicazione dell’art. 52 del Codice, ricavabile da una pronuncia della V
Sezione civile di questa Corte. Con decreto 13 gennaio 2005, la Corte[34] ha
respinto la richiesta di un Comune, motivata sul pregiudizio che quest’ultimo
avrebbe ricevuto con la diffusione della sentenza che, in caso di soccombenza,
avrebbe confermato l’annullamento di avvisi di accertamento dell’ICI, paventando
il pregiudizio all’azione accertativa dell’Amministrazione nei confronti di
altri contribuenti. Nella specie la S.C. ha ritenuto che non poteva configurare
un legittimo motivo l’interesse di un ente pubblico ad evitare che i
contribuenti venissero a conoscenza di atti amministrativi illegittimi,
costituendo al contrario una diffusa conoscenza del mancato rispetto da parte
dell’amministrazione delle norme che regolano l’attività impositiva un momento
irrinunciabile della pretesa dei contribuenti ad un esercizio di tale attività
conforme ai principi di imparzialità e di legalità.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>B) In altri casi – e siamo al secondo livello di
tutela – l’anonimizzazione dei dati identificativi avviene in forza di un
preventivo apprezzamento del legislatore. Infatti il comma 5 dell’art.
52:</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- da un lato fa ricognitivamente salvo quanto
previsto dall’art. 734-bis del codice penale relativamente al divieto di
divulgazione delle generalità delle persone offese da atti di violenza sessuale
senza il consenso di costoro;</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- dall’altro prevede che, in caso di diffusione di
decisioni giudiziarie, occorre omettere in ogni caso, anche in mancanza della
predetta annotazione, “le generalità, altri dati identificativi o altri dati
anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità
di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di
famiglia e di stato delle persone”. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Premesso che la tutela della privacy di cui al comma
5 ha contorni più ampi di quelli che derivano (ai sensi dei commi 1 e 2) per
effetto dell’intervento, a richiesta dell’interessato o d’ufficio, del giudice,
giacché nel primo caso l’“oscuramento” concerne non solo le generalità e altri
dati identificativi dell’interessato, ma altresì altri dati anche relativi a
terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità dell’interessato;
i problemi interpretativi che la disposizione del comma 5 pone[35] sono i
seguenti:</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>(a) se il diritto all’anonimato che assiste il minore
sia temporaneo o permanente, se cioè riguardi il minore finché egli non avrà
raggiunto la maggiore età ovvero precluda una volta per tutte, per il solo fatto
che la vicenda storicamente riguardava un minore, la diffusione della decisione
con l’indicazione delle generalità (e degli altri dati concernenti il minore
stesso o attraverso i quali lo stesso possa essere identificato) anche quando
questi avrà compiuto la maggiore età (in ipotesi raggiunta nel corso del
processo);</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>(b) se per procedimenti in materia di famiglia, nei
quali la garanzia ex lege dell’anonimato è riferita alle sole parti di quei
giudizi, si intendano soltanto quelli in cui si discutono aspetti personali o
anche quelli dove vengono in rilievo aspetti patrimoniali.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Con riguardo alla questione sub (a) sembra
preferibile la tesi estensiva. A ciò inducono più ragioni:</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- innanzitutto la ratio della norma. La vicenda
giudiziaria che coinvolge a qualunque titolo un minore (come autore di un reato,
ma anche come vittima di un episodio di malpractice medica o come soggetto
interessato in un procedimento riguardante la potestà genitoriale che si
esercita nei suoi confronti) è, per espressa volontà legislativa, un dato
sensibile; il caso della vita che ne è alla base può essere diffuso per finalità
di informazione giuridica, ma senza che sia possibile ricollegare quel caso
della vita a quel dato minore. Non v’è dubbio che in tal modo il legislatore
intende evitare la “scoperta” del minore ad opera di terzi: il processo di
maturazione del minore potrebbe essere profondamente disturbato e deviato dal
rendere pubblica la sua vicenda, posto che il minore, per maturare gradualmente
e armonicamente e, quindi, per costruire la propria identità, deve avere intorno
a sé silenzio e rispetto. Ma alla regola normativa non è estranea l’idea di
evitare che anche l’identità che un soggetto ormai adulto si è costruita, possa
essere messa a repentaglio dalla divulgazione, a distanza di anni, di un caso
della vita che lo riguardava quando era minorenne; </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- un argomento di carattere letterale. Quando il
legislatore ha voluto limitare temporalmente la riservatezza del minorenne, lo
ha detto espressamente. Se ne ha un esempio nell’art. 114, comma 6, del codice
di procedura penale, che circoscrive il divieto della pubblicazione delle
generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati
dal reato fino al momento essi “non sono divenuti maggiorenni”; </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>- un argomento di carattere sistematico. L’art. 50
del Codice in materia di protezione dei dati personali – collocato nell’ambito
del medesimo Titolo (il I, dedicato ai Trattamenti in ambito giudiziario) in cui
sono poste le disposizioni sull’informatica giuridica – estende al “caso di
coinvolgimento a qualunque titolo del minore in procedimenti giudiziari in
materia diverse da quella penale” il divieto, dettato dall’art. 13 del d.P.R. 22
settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a
carico di imputati minorenni), di pubblicazione e divulgazione con qualsiasi
mezzo di notizie o immagini dirette a consentire l’identificazione del minore. E
con riferimento alla disposizione del processo penale minorile la dottrina[36]
ritiene che il divieto riguardi anche l’ipotesi in cui il soggetto abbia
raggiunto la maggiore età al momento del processo, sul rilievo che sarebbe
contraddittorio prevedere (in particolare con le norme che disciplinano il
casellario giudiziale) da un lato che al raggiungimento della maggiore età quasi
ogni traccia del coinvolgimento in un procedimento penale del minore scompaia e
dall’altro consentire che venga pubblicizzato quello stesso fatto che deve
rimanere segreto.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Anche con riguardo alla questione sub (b) sembra
preferibile la tesi estensiva, quanto meno in quei casi in cui la controversia
patrimoniale attinente ad un rapporto di famiglia abbia un titolo personale.
Nella vicenda che ha dato luogo alla sentenza della I Sezione civile 7 giugno
2000, n. 7713[37] in tema di risarcimento del danno esistenziale per l’ostinato
rifiuto, da parte del genitore giudizialmente dichiarato tale, di contribuire al
mantenimento del figlio naturale, la controversia civile, promossa dal figlio
naturale frattanto divenuto maggiorenne, esibiva un contenuto esclusivamente
patrimoniale, e tuttavia aveva come causa petendi la lesione del diritto
fondamentale del figlio naturale ad essere mantenuto dal proprio genitore (art.
30 Cost. e art. 261 cod. civ., in rapporto all’art. 147 cod. civ.). E così nel
caso affrontato dalla recente sentenza, sempre della I Sezione civile, 10 maggio
2005, n. 9801[38], in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione
del diritto alla sessualità del partner causato dalla mala fede del marito che,
prima della nozze, non aveva doverosamente informato la futura sposa della grave
anomalia sessuale da cui era affetto. Ancora, nelle cause sulla ripartizione
della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato, ai
sensi dell’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito
dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74), l’indagine del giudice non è mai
limitata soltanto alla verifica del dato estrinseco della durata dei rispettivi
matrimoni, ma ha un ambito più ampio, che va a lambire il cuore delle relazioni
personali: a quel riparto, difatti, non sono estranei profili di solidarietà
familiare, di soccorso verso il soggetto più debole e di ancoraggio a relazioni
personali più complesse. Del resto, la tesi che vorrebbe restringere la tutela
della privacy delle parti ai soli procedimenti in materia di rapporti personali
di famiglia condurrebbe ad esiti irragionevoli: sarebbero coperti, in caso di
diffusione del relativo provvedimento giurisdizionale, i nomi delle parti in un
procedimento di separazione personale, in ipotesi consensuale, mentre non lo
sarebbero i nomi di quei medesimi coniugi quando uno di essi chieda il mutamento
delle condizioni di separazione, con riguardo all’assegno di mantenimento,
perché l’altro ha instaurato una relazione more uxorio con un altro
soggetto.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>5. – Modalità e ambito di protezione dei dati
sensibili. In particolare, i rapporti con la libertà di stampa. L’art. 52 del
Codice si occupa anche delle modalità operative attraverso le quali avviene
l’anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Si è già visto che ove la tutela della privacy sia
affidata ad un intervento, su richiesta o d’ufficio, del giudice (sono i casi
dei commi 1 e 2), questi dispone che sia apposta a cura della cancelleria o
segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione
volta a precludere l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi
in caso di riproduzione della decisione in qualsiasi forma per finalità di
informazione giuridica.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il testo del decreto legislativo prevede anche
l’espressione esatta da adottare per tale annotazione, comprensiva del
riferimento esplicito agli estremi dell’art. 52 del Codice; precisa inoltre (al
comma 4) che “in caso di diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di
altri provvedimenti recanti l’annotazione …, o delle relative massime
giuridiche, è omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati
identificativi dell’interessato”. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Là dove (ed è l’ipotesi del comma 5) la tutela dei
dati identificativi è ex lege, il dovere di anonimizzare i dati sensibili
identificativi del soggetto, allorché si proceda alla diffusione del
provvedimento giurisdizionale (o della relativa massima), sorge “in ogni caso,
anche in mancanza dell’annotazione di cui al comma 2”. Tuttavia ciò non toglie
che, ancorché non necessaria, l’annotazione disposta giudice sia comunque
opportuna, soprattutto quando – ed è il caso della nostra Corte di cassazione –
le decisioni sono rese accessibili attraverso il sistema informativo e il sito
istituzionale dell’autorità giudiziaria. In mancanza di annotazione da parte del
giudice, infatti, si costringerebbe il personale che immette la decisione nella
rete Internet di verificare ogni volta (risolvendo i nodi interpretativi di cui
supra) se la sentenza o il provvedimento giurisdizionale riguardi un
procedimento concernente minori o, ancora, un procedimento in materia di
rapporti di famiglia.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>L’anonimizzazione, che si attua attraverso
l’apposizione dell’annotazione “In caso di diffusione omettere le generalità e
gli altri dati identificativi di”, non incide sulla pubblicazione dell’originale
della sentenza (o di altro provvedimento del giudice), che deve essere completo
di tutti i dati identificativi delle parti. Non sembra pertanto possibile
redigere il testo del provvedimento con le iniziali anziché con le complete
generalità[39]. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il rimedio dell’anonimato opera soltanto in caso di
successiva divulgazione della sentenza per finalità di informazione
giuridica.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Si pongono, al riguardo, due problemi.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In primo luogo, si tratta di stabilire se il rilascio
di copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale in favore di un
soggetto diverso dalla parte del relativo procedimento e non titolare di uno
specifico interesse processuale[40] sia, già, un’attività di diffusione della
decisione, e soggiaccia perciò alla disciplina di cautela prevista dall’art. 52
del Codice in materia di protezione dei dati personali.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Al quesito sembra doversi dare risposta negativa. In
questa direzione induce l’art. 4, comma 1, lettera m), del Codice, che per
diffusione intende “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti
indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o
consultazione”. Laddove il rilascio di copia si appunta sempre in favore di un
soggetto determinato che ne abbia fatto apposita richiesta, il proprium della
diffusione consiste nel rendere conoscibile la decisione del giudice ad una
pluralità di soggetti indeterminati, così divulgandola e propagandola in uno
spazio via via più ampio. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Del resto, una conclusione siffatta ben si coordina
con la previsione contenuta nel comma 4 dell’art. 52, secondo cui “In caso di
diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti
l’annotazione …, o delle relative massime giuridiche, è omessa l’indicazione
delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato”. Se anche i
terzi sono destinatari della prescrizione di omettere le generalità in caso di
diffusione, ciò significa che il rilascio al terzo, da parte del cancelliere, di
copia del provvedimento per uso studio non è, esso stesso, atto del diffondere.
</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il secondo problema è se l’anonimizzazione delle
generalità e di altri dati identificativi per intervento del giudice, ai sensi
dei commi 1 e 2 dell’art. 52 del Codice, operi direttamente anche rispetto alla
pubblicazione per finalità di giornalismo o di cronaca giudiziaria. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Anche a questo interrogativo sembra doversi dare una
risposta negativa.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il Codice prevede uno statuto particolare per
l’attività giornalistica, che rifugge dalla previsione di regole rigide e
minuziose e che affida in prima battuta il bilanciamento tra i diritti e le
libertà allo stesso giornalista il quale, in base ad una propria valutazione
(che può essere sindacata), acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad
informare la collettività su fatti di rilevanza generale e d interesse pubblico,
esprimendosi nella cornice della normativa vigente e nel rispetto del proprio
codice di deontologia. Esso stabilisce che chi esercita l’attività giornalistica
o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero
(inclusa l’espressione artistica e letteraria, come ora precisato dall’art. 136
del Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso
dell’interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una
preventiva autorizzazione di legge o del Garante. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In caso di diffusione o di comunicazione di dati, il
giornalista è peraltro tenuto comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137,
comma 3): i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello
dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i
principi previsti dal codice deontologico relativo al trattamento dei dati
personali nell’esercizio dell’attività giornalistica[41].</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>In ordine ai dati giudiziari, il codice deontologico
(art. 12), a sua volta, rinvia al principio di essenzialità dell’informazione
(art. 5), in modo da evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non
interessati ai fatti. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>La non diretta operatività all’attività giornalistica
degli effetti dell’anonimizzazione disposta ai sensi dell’art. 52, commi e 2,
del Codice – ma, più limitatamente, l’affidamento all’autonomia e alla
responsabilità del giornalista, nel rispetto della legge e del codice
doentologico, dei risultati di quella ponderazione e di quel bilanciamento –
sembra ricavarsi dal parere del Garante 6 maggio 2004 su Privacy e giornalismo.
Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell’Ordine dei giornalisti[42]. Il
Garante ha evidenziato la necessità che l’esigenza di assicurare la trasparenza
dell’attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui
viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie
fondamentali riconosciute all’indagato e all’imputato: la presunzione di non
colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un
giusto processo. In particolare, la diffusione dei nomi di persone condannate e,
in generale, dei destinatari di provvedimenti giurisdizionali, ad avviso del
Garante, deve inquadrarsi nell’ambito delle disposizioni processuali vigenti, di
regola improntate ad un regime di tendenziale pubblicità. Di guisa che sono
ritenuti pubblicabili, ad esempio, l’identità, l’età, la professione, il capo di
imputazione e la condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la
verità dei fatti, la forma civile dell’esposizione e la rilevanza pubblica
(anche solo in un contesto locale) della notizia. Secondo il Garante, nella
diffusione dei dati dei condannati devono essere presi in considerazione il tipo
di soggetti coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o
ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare
tenuità dello stesso, l’eventualità che si tratti di condanne scontate da
diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione
nel casellario), in ragione dell’esigenza di promuovere il reinserimento sociale
del condannato. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali, ad avviso del
Garante, dovrebbero altresì prevalere nei casi in cui la vittima ha manifestato
la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo restando il fatto
che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei diversi dati anche in
assenza del consenso da parte degli interessati). Tale principio troverebbe, tra
l’altro, fondamento nella possibilità, per ogni soggetto interessato, di opporsi
anche in anticipo per motivi legittimi alla pubblicazione (art. 7, comma 4,
lettera a, del Codice). Secondo il Garante, il giornalista, nell’effettuare le
valutazioni a lui rimesse, “non potrà non tenere conto del bilanciamento di
interessi effettuato in un altro fronte e cioè che le sentenze pubblicate per
finalità di informatica giuridica (non giornaliste, quindi) dallo stesso ufficio
giudiziario, oppure da riviste giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi
più delicati non recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore,
delicati rapporti di famiglia, ecc.: art. 52 del Codice)”.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Roma, 5 luglio 2005</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Redattori: Ersilia Calvanese e Alberto
Giusti</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>Il direttore aggiunto Il direttore</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>(Giovanni Canzio) (Stefano Evangelista)</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[1] Commissionata dal Primo Presidente con nota del
13 giugno 2005, n. 649/05/SG di protocollo, in riferimento a tre recenti decreti
adottati i primi due dalla sez. II penale e il terzo dalla sez. III penale, che
hanno ordinato l’oscuramento dei dati identificativi dell’imputato nelle
relative sentenze da esse pronunziate.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[2] Così G. Resta, Privacy e processo civile, saggio
in corso di pubblicazione in Diritto dell’informazione e
dell’informatica.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[3] Viene definito dalla legge cit. come trattamento
“qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza
l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione,
l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la
modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo,
l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione
e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”. In
particolare, la comunicazione si distingue dalla diffusione, a seconda che
l’attività di dare conoscenza dei dati personali, in qualunque forma, anche
mediante la loro messa a disposizione o consultazione, riguardi uno o più
soggetti determinati diversi dall'interessato oppure soggetti
indeterminati.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[4] Provvedimento del 2 dicembre 1998, in B.U. n. 6,
1998, pag. 97. I principi dettati dall’art. 9 cit. sono stati richiamati dal
Garante anche per i procedimenti svolti dai giudici tributari nel parere
richiesto dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (cfr.
Comunicato n. 27, in B.U. n. 11-12, 2000, pag. 100). Nella Relazione dell’anno
1999 sull’attività svolta e sullo stato di attuazione della legge n. 675 del
1996, il Garante per la protezione dei dati personali ha ribadito
l’applicabilità della legge all’attività giudiziaria.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[5] Newsletter del 7 febbraio 2000.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[6] Provvedimento del 27 giugno 2001.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[7] Provvedimento del 5 novembre 2003, in B.U., n.
44, 2003.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[8] Nota del 21 febbraio 2000, in B.U. n. 11-12,
2000, pag. 9.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[9] F. Sorrentino, La protezione dei dati personali
nel processo, in Questione giustizia, 2001, pag. 122 e ss.; Scarano, Commento
sub art. 4 l. 675/1996, in AA.VV, Tutela della privacy, in Nuove leggi civ.
comm., 1999, n.2-3, p. 289. In senso contrario si pone l’opinione espressa da
Buttarelli, Banche dati e tutela della riservatezza, Milano, 1997, p. 209,
secondo cui il riferimento agli “uffici giudiziari” era tale da ricomprendere la
giurisdizione ordinaria (civile e penale) e quella amministrativa e tributaria.
Secondo quanto rileva Sorrentino, op. loc. cit,, peraltro gli esempi richiamati
dall’A. da ultimo cit. riguarderebbero attività non propriamente processuali o
giudiziarie, quali la “emanazione degli atti amministrativi in forma
automatizzata”, la “tenuta automatizzata dei registri”, la “microfilmatura di
atti”, il “circuito informatizzato tra uffici giudiziari, CSM, e uffici del
Ministero per consentire una verifica costante, in tempo reale della
produttività dei singoli magistrati”, ovvero la comunicazione di dati giudiziari
o i limiti della loro divulgazione (con riferimento a supporti informativi o
telematici, intercettazioni, riprese televisive).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[10] A titolo esemplificativo venivano indicate le
attività di coordinamento di tipo amministrativo o organizzativo svolta dal
Procuratore nazionale antimafia, le attività disciplinate dall’ordinamento
penitenziario relative a detenuti, le attività ispettive sugli uffici giudiziari
relative a magistrati o connesse a procedimenti giudiziari.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[11] Cfr. Sorrentino, op. loc. cit., pag.
12.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[12] Newsletter n. 170 del 5 maggio 2003.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[13] Tra l’altro, l’art. 3, par. 2 della direttiva
95/46/CE sulla protezione dei dati personali aveva escluso dalla sua
applicabilità i trattamenti di dati personali effettuati per l'esercizio di
attività dello Stato in materia di diritto penale.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[14] Sul tema, cfr. l’ampio approfondimento di F.
Sorrentino, E’ arrivato il “codice della privacy” (con molti dubbi di
costituzionalità). Limiti e problemi nel controllo sull’autorità giudiziaria, in
Diritto e giustizia, 2003, n. 41, p. 101.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[15] Newsletter n. 255 del 9 maggio 2005.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[16] Relazione annuale 2003, pag. 76.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[17] In termini generali invece l’art. 11, comma 2,
del Codice stabilisce che “i dati personali trattati in violazione della
disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono
essere utilizzati”.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[18] Newsletter del 7 febbraio 2000. Provvedimenti
del Garante del 21 ottobre 1998, in B.U. n. 6, 1998, pag. 80; 30 ottobre 2001,
in B.U. n. 23, 2001, pag. 22. In ordine alla pubblicità dei ruoli affissi ex
art. 116 disp. att. cod. proc. civ., cfr. anche delibera del CSM del 16 luglio
2003, secondo cui questi non devono necessariamente contenere i nomi delle parti
e l’oggetto delle controversie, ritenendosi sufficiente l’indicazione del solo
numero di registro generale.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[19] Decisione del 19 dicembre 2001. In senso
conforme, v. anche le decisioni del 14 ottobre 1997, in B.U. n. 2, 1997, pag. 69
ss.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[20] Autorizzazione n. 7/2004 al trattamento dei dati
a carattere giudiziario da parte di privati, di enti pubblici economici e di
soggetti pubblici (G.U. n. 190 del 14 agosto 2004).</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[21] Ciò che potrà consentire, ad esempio,
all’avvocato munito di apposita smart card di riconoscimento (e relativa firma
digitale) l’accesso on line al fascicolo della propria causa. Cfr., sulla stampa
quotidiana, l’articolo dal titolo Cassazione in studio. Per gli abilitati
davanti alla Corte consultazione telematica da gennaio, apparso su Il Sole 24
ore del 30 gennaio 2004.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[22] Cfr. Trib. Roma 27 novembre 1998, in Foro it.,
1999, I, 313, il quale ha affermato che le attuali disposizioni processuali non
consentono di redigere l’atto introduttivo di una controversia – o di intervento
– menzionando soltanto le iniziali dell’interessato.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[23] E quindi - prima del formale deposito in
cancelleria del provvedimento del giudice.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[24] Così Maietta, I trattamenti in ambito
giudiziario, da parte delle forze di polizia e per la difesa e la sicurezza
dello Stato, in Cardarelli – Sica – Zeno Zencovich, Il codice dei dati
personali. Temi e problemi, Milano, 2004, pagg. 188-189.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[25] Testualmente, Resta, op. cit.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[26] Faganello, Il diritto alla protezione dei dati
personali, Rimini, 2004, pag. 394.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[27] Ancora Resta, op. cit.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[28] Traduzione nostra: “I ricorrenti che non
desiderano che la loro identità sia resa accessibile al pubblico devono
indicarlo e devono presentare una dichiarazione delle ragioni giustificatrici di
una tale deviazione dalla regola normale di pubblico accesso all’informazione
nei procedimenti dinanzi alla Corte. Il Presidente del Collegio può autorizzare
l’anonimato soltanto in casi eccezionali e debitamente motivati”. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[29] Una interpretazione restrittiva è fatta propria
da Bottino, Codice della privacy, Milano, 2004, pag. 83, secondo il quale motivi
legittimi ai fini dell’art. 7, comma 4, del Codice debbono intendersi
motivazioni atte a dimostrare che i dati sono stati trattati in violazione delle
norme che presiedono il trattamento ed utilizzo dei dati poste dallo stesso
Codice, ancorché sia legittima la finalità della raccolta.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[30] In particolare, Buttarelli, op. loc. cit, pag.
313 e ss.; Simeoli, Il diritto alla protezione dei dati personali, Rimini, 2004,
pag. 288, secondo cui il mero interesse a non comparire in una banca dati non
sarebbe sufficiente per opporsi al trattamento; Bassoli, Codice in materia di
protezione dei dati personali, Milano, 2004, pag. 67.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[31] La comunicazione e la diffusione dei dati
personali da parte di privati e di enti pubblici economici sono ammesse ....
h-bis) limitatamente alla comunicazione, quando questa sia necessaria, nei casi
individuati dal Garante sulla base dei principi sanciti dalla legge, per
perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo destinatario dei
dati, qualora non prevalgano i diritti e le libertà fondamentali, la dignità o
un legittimo interesse dell’interessato.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[32] Il consenso non è richiesto, oltre che nei casi
previsti nella Parte II, quando il trattamento:... con esclusione della
diffusione, è necessario, nei casi individuati dal Garante sulla base dei
principi sanciti dalla legge, per perseguire un legittimo interesse del titolare
o di un terzo destinatario dei dati, anche in riferimento all'attività di gruppi
bancari e di società controllate o collegate, qualora non prevalgano i diritti e
le libertà fondamentali, la dignità o un legittimo interesse
dell'interessato.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[33] Provvedimento del 27 febbraio 2001.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[34] Pres. Riggio – est. Altieri, sull’istanza
proposta dal ricorrente Comune di Bagno a Ripoli nel procedimento dallo stesso
promosso contro Poggioli Renzo (ed iscritto al N.R.G. 26436 del 2003).
</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[35] E che non sembrano essere stati affrontati dai
primi commentatori. Si vedano, al riguardo: Giusella Finocchiaro, Sentenze:
possibile l’oscuramento delle parti, in Il Codice della privacy, Guida al
diritto, fascicolo monografico, settembre 2003, pag. 127 e ss.; Cassano – Fadda
(a cura di ), Codice in materia di protezione dei dati personali, Milano, 2004,
pag. 297 e ss.; Elli – Zallone, Il nuovo Codice della privacy (commento al
d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), Torino, 2004, 73 de ss.; Oleari, in Codice della
privacy a cura di Italia, Milano, 2004, I, pag. 755 e ss.; Roberto e Riccardo
Imperiali, Codice della privacy, Milano, 2004, pag. 272 e ss. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[36] Cfr. Battistacci, Il processo minorile, in Le
riforme complementari, coordinato da G. Fumu, Padova, 1991, pag. 20; Cibinel,
sub art. 13 disp. proc. min., in EspGMin, 1989, pagg. 104-105.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[37] Est. Morelli.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[38] Est. Luccioli.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[39] Cfr. A. Cia(ncarella), Ma mi faccia la privacy.
La Corte condanna A.F., in Finanza & Mercati, 28 giugno 2005.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[40] Titolarità di uno specifico interesse che, ad
esempio, potrebbe ravvisarsi nel terzo che voglia promuovere l’opposizione ai
sensi dell’art. 404 cod. proc. civ.</FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[41] Il relativo codice deontologico è stato adottato
con provvedimento del Garante del 29 luglio 1998, all. A1 al Codice. </FONT></P>
<P><FONT face=Arial size=2>[42] Il parere è consultabile in </FONT><A
href="http://www.garanteprivacy.it/"><FONT face=Arial color=#0000ff
size=2>www.garanteprivacy.it</FONT></A></P><BR><SPAN
class=971293709-11072005><FONT face=Arial size=2>Avv. Barbara
Gualtieri</FONT></SPAN></DIV></BODY></HTML>